Le storie di bambini selvaggi, allevati da animali e vissuti per i primi anni della loro vita allo stato brado, al contrario di quanto si può pensare, non sono così rare. Uno dei casi più stupefacenti si svolse in India agli inizi del ‘900 e vide come protagoniste due “bambine lupo” chiamate Amala e Kamala.
La vicenda, che vide protagoniste due bambine indiane, Amala e Kamala, ebbe inizio nell’ottobre del 1920, nella giungla del Bengala. Un missionario anglicano, J. A. I. Singh, che raccontò in seguito tutta la storia, sentì discutere gli abitanti di un villaggio di due orribili manush-baghas, o spettri, che avevano corpo umano e testa di demonio, con occhi che lanciavano fiamme. Le creature erano state viste più volte nei pressi di un gigantesco formicaio abbandonato, a una decina di chilometri da un villaggio, che Singh identificò con Godamuri.
Singh decise di indagare, si recò sul posto, scortato da un gruppo di cacciatori, e a un certo punto vide due figure spettrali che correvano velocemente a quattro zampe, in compagnia di una famiglia di lupi. Quella fugace visione gli bastò per capire che si trattava di creature umane, di bambini selvaggi, che dovevano vivere nel formicaio. Qualche giorno dopo organizzò un gruppo di contadini per catturarli; mentre i cacciatori si tenevano pronti con archi e frecce, scavatori e battitori circondarono il monticello del formicaio e cominciarono a demolirlo a colpi di vanga. Immediatamente, due lupi balzarono fuori dalla tana e si dileguarono nella foresta. Un terzo lupo, una femmina, si avventò sugli uomini, ringhiando ferocemente. Era evidente che voleva proteggere le creature che si trovavano all’interno.
“Pensai che doveva trattarsi della lupa madre, la cui natura era così feroce e l’affetto così sublime“, ricordò Singh nel suo diario. “Ero sbalordito al pensiero che un animale potesse provare un sentimento così nobile da superare persino quelli umani. Qualunque cosa fossero quelle strane creature, certamente non erano i suoi cuccioli; ma in origine l’animale doveva aver portato loro il cibo come faceva con i suoi figli“. Sfortunatamente la rivelazione di Singh arrivò troppo tardi per salvare la lupa: mentre si lanciava per la seconda volta contro gli scavatori, fu colpita a breve distanza da un arciere, e morì subito dopo che una freccia le trafisse un fianco.
Uccisa la lupa, gli uomini della tribù poterono abbattere facilmente le pareti del monticello. Dentro trovarono quattro creature rannicchiate in un mucchio: due erano lupacchiotti e due erano i piccoli esseri spettrali che Singh aveva intravisto. Tutti e quattro resistevano accanitamente ad ogni tentativo di separazione finché Singh ordinò di gettare delle coperte per immobilizzarli.
Un breve esame rivelò che si trattava di due bambine, una di un paio di anni e l’altra di otto, più o meno. Singh decise di portarle al suo orfanotrofio di Midnapore e di allevarle come se fossero figlie sue, ma temeva che la notizia delle “bambine lupo” si diffondesse, e che la curiosità della gente pregiudicasse le probabilità di recuperare le piccole ad una vita normale. Per un anno, Singh e sua moglie tennero segreta l’origine delle bambine, decisi ad allevarle come tutti gli altri orfani. Chiamarono la più grande Kamala, e la più piccola Amala.
Lavate e ravvivate, Amala e Kamala assunsero un aspetto più umano, ma l’opera di “addomesticazione delle bambine lupo” era solo all’inizio. Sotto quasi tutti gli aspetti, le bambine apparivano due selvagge: strisciavano sulle mani e sulle ginocchia, ringhiavano rabbiosamente agli esseri umani, e avevano paura della luce del giorno mentre di notte ululavano alla luna. Volevano solo carne cruda, come si legge in molte altre cronache di bambini selvaggi, frugavano tra i rifiuti per trovare le interiora di pollo o altri resti animali da mangiare. Ma la cosa più strana erano i loro occhi. “Emettevano nel buio uno strano bagliore come quelli dei gatti. Di notte era impossibile guardare qualcos’altro che non fossero quelle due potenti luci azzurrognole“.
Dopo un anno, le “bambine lupo” si ammalarono gravemente, e nonostante gli sforzi del medico, Amala, la più piccola morì di una malattia renale. Nessuna delle due aveva mai mostrato la più piccola traccia di emozione prima di allora, ma Kamala pianse alla morte della compagna. Mentre le scendevano le lacrime, però, il volto rimaneva stranamente impassibile. Eppure, la morte della bambina più piccola portò un grande cambiamento in Kamala, che lentamente assunse caratteristiche più umane, cominciò a vestirsi da sola e a imparare qualche parola. Cominciò anche a camminare eretta per brevi distanze. Questi pochi tratti umani sembravano il segnale di un cambiamento nel suo stesso carattere. Se in precedenza aveva manifestato avversione per la luce del giorno, ora invece aveva paura del buio. E il cane dei Singh, con cui Kamala aveva fatto amicizia, dividendo con lui qualche volta anche il cibo, cominciò ad abbaiarle contro, come avrebbe fatto con una qualsiasi persona sconosciuta.
Nel 1929 Kamala morì a circa 17 anni, per lo stesso tipo di malattia renale, che aveva ucciso Amala. Nel frattempo, la storia delle “bambine lupo” era diventata di dominio pubblico, e la sua morte non placò l’interesse e le discussioni che Singh aveva cercato di evitare. Ventidue anni dopo, nel 1951, un sociologo americano, William F. Ogburn, si recò in India per studiare il caso, si affidò anche ad un’agenzia investigativa, ma non riuscì a verificare il racconto di Singh e non trovò neppure il villaggio di Godamuri, dove sarebbe accaduto l’episodio. Singh nel frattempo era morto e non poteva difendersi dall’accusa di aver inventato tutto. Ma nel 1975 un altro ricercatore, Charles Maclean, rintracciò un uomo che disse di aver fatto parte del gruppo di cacciatori, e che confermò il racconto del missionario. Maclean, esaminate con cura le testimonianze, concluse che Singh, anche se aveva esagerato qualche particolare, fondamentalmente aveva detto la verità.
In ogni caso la storia di Kamala e Amala scatenò ben presto una campagna campale tra psicologi. Il dottor Arnold Gesell, dell’Università di Yale, trovò ampie prove a favore della testimonianza di Singh sul comportamento di Kamala. “Kamala fu soggetta a tre grandi crisi l’una dopo l’altra. Fu privata di cure umane quando venne portata nella tana dei lupi, fu privata della sicurezza che sia pure a duro prezzo, le aveva dato la sua vita di lupo quando venne salvata dai cacciatori. Infine fu dolorosamente privata della sicurezza che poteva darle il ricordo di parenti e amici quando la sua sorellina morì precocemente“.