Peter Stubbe fu il protagonista di una serie di avvenimenti raccapriccianti che si svolsero nei dintorni delle città tedesche di Colonia e Bedburg verso la fine del XVI secolo. In base a quanto riportato da una pubblicazione del tempo, Peter Stubbe divenne un licantropo in seguito alla stipula di un patto col diavolo.
Nell’ultimo scorcio del XVI secolo un grosso lupo si aggirava per le campagne intorno alle città tedesche di Colonia e Bedburg. I suoi attacchi contro uomini e animali domestici erano così frequenti e le sue vittime così numerose che la gente era terrorizzata quando doveva percorrere anche brevi tratti di strada.
“Spesso“, racconta un libello del 1591, “gli abitanti delle città e dei paesi vicini trovavano braccia e gambe di uomini, donne e bambini, uccisi, disseminate nei campi, il che provocava in loro grande dolore e pena“. Ma per quanto si dessero da fare, non riuscivano a catturare quell’ingordo e crudele lupo. Poi, del tutto fortunosamente, un gruppo di uomini lo scoprì. Allora lo circondarono “e con molta circospezione gli lanciarono i cani contro, in modo che non avesse via di scampo“.
Quando lo ebbero catturato, gli inseguitori rimasero senza parole: il responsabile di tanti delitti non era un lupo bensì un uomo, un certo Peter Stubbe, che sia le vittime sia i loro amici ben conoscevano. Nessuna scoperta, riferisce il libello, avrebbe risvegliato tanto orrore. Stubbe era un lupo mannaro, trasformato da uomo in bestia con una magia, e spinto a compiere omicidi senza motivo e a divorare le sue vittime umane.
Stubbe, rappresentava un caso classico di licantropia e vale la pena di esaminarlo in alcuni particolari. Legato dai suoi catturatori a uno strumento di tortura conosciuto come “la ruota” e temendo il trattamento che gli sarebbe stato inflitto per forzarlo a parlare, confessò una serie di scelleratezze. Rivelò che aveva ottenuto la trasformazione in lupo allacciandosi intorno a una vita una cintura magica con una guaina procuratagli dal diavolo. Come descritto nel libercolo, Stubbe così equipaggiato divenne “forte e pieno di vigore, con occhi grandi e larghi, che di notte scintillavano come tizzoni ardenti, con una bocca grande e larga e con una fila di denti acuminati e crudeli, un grosso corpo e zampe robuste“. Poiché non si riuscì a trovare la cintura, il magistrato ritenne che il demonio se la fosse ripresa dopo aver abbandonato Stubbe “ai tormenti che le sue azioni meritavano“.
Si trattava di azioni efferate. Tra le vittime di cui si ebbe notizia c’erano tredici bambini e due donne incinte alle quali Stubbe aveva estratto il fegato dal ventre; ai piccoli non ancora nati aveva strappato i “cuori ancora caldi e palpitanti, che considerava bocconcini prelibati e i più convenienti per il suo appetito“.
Tali crimini erano talmente al di fuori della consueta esperienza umana che avvinsero la fantasia del popolo e alimentarono le paure: i più eccitabili credevano che ci fossero lupi mannari, da tutte le parti, da eliminare a ogni costo. Che Stubbe fosse inequivocabilmente malvagio, secondo il libello, non c’era dubbio. “Dimostrò grandissima inclinazione al male” fin dalla prima giovinezza: praticava le arti dei negromanti da quando aveva solo dodici anni, e la stregoneria ben presto divenne per lui una tale ossessione che, a quanto si disse, intendeva stipulare un patto col diavolo per acquisire potere. In cambio Stubbe avrebbe ricevuto lo strumento della sua caduta, la cintura magica, della quale si servì, in un primo tempo, per vendicarsi dei nemici, veri o immaginari. Li attaccava ovunque li trovasse, in campagna o in città: balzava loro addosso sotto le sembianze di un lupo e non lasciava la preda “fino a quando non le aveva squarciato la gola” e non l’aveva fatta a pezzi.
Una volta, per esempio, Stubbe scorse due uomini e una donna camminare lungo la strada che si inoltrava nella foresta. Nascosto nel bosco fittissimo, chiamò uno degli uomini, che conosceva, e quello andò verso di lui. Non vedendolo tornare, il compagno seguì la strada fatta dall’amico e anch’egli scomparve. La donna allora fuggì, ma non abbastanza in fretta, e il presunto lupo mannaro la violentò e la uccise. I corpi straziati degli uomini furono trovati nella foresta, mentre il corpo della donna non riapparve mai più e si pensò che Stubbe l’avesse divorato.
Poiché la sua sete di sangue cresceva, si racconta, egli cominciò a percorrere i campi notte e giorno alla ricerca di vittime. Se per esempio scorgeva due ragazzine che giocavano insieme o che mungevano le mucche, correva in mezzo a loro più veloce di un levriero, e ne afferrava una per violentarla e ucciderla, lasciando che le altre si dessero alla fuga.
Non è chiaro se Stubbe fosse sposato; è certo, però che ebbe un’amante, una donna “piacevole, di alta statura, dotata di molte grazie e molto stimata dai vicini“. Frequentava spesso anche altre donne, ma la sua discendenza era assicurata, perché aveva messo al mondo due figli, un bambino e una bambina. A mano a mano che sua figlia cresceva la sua bellezza aumentava così che Stubbe si incapricciò di lei. “E tale era il suo lussurioso desiderio nei confronti della ragazza“, informa il libello facendoci rimanere senza fiato per l’orrore, “che generò un figlio con lei, approfittando quotidianamente di lei come di una concubina“.
C’era soltanto una persona che Peter Stubbe amava davvero, suo figlio, che chiamava affettuosamente “riposo del mio cuore“. Ma perfino in questo caso l’attrazione per la violenza e per il sangue superava talmente la gioia che gli procurava il bambino, che una volta “lo attirò nei campi, e da lì in una folta foresta vicina, e là molto crudelmente lo smembrò, e fatta la qualcosa, immediatamente mangiò il suo cervello che gli aveva tirato fuori dalla testa“. A questo punto l’opuscolo esplode in ingiurie, condannando quest’ultimo assassinio come “il più mostruoso atto che mai uomo abbia compiuto, perché non fu mai conosciuto uno sciagurato con una natura a tal punto degenerata“.
Nessuna condanna, per quanto severa, pareva adeguatamente punire l’enormità dei crimini di Peter Stubbe. Il suo corpo venne allora legato alla ruota e la sua carne strappata dalle ossa in vari punti con “pinze resi incandescenti dal fuoco“. Poi gli furono spezzate braccia e gambe. Infine la testa venne “staccata dal corpo” e messa da parte, e la sua carcassa bruciata e ridotta in cenere. Giudicate complici dei suoi delitti la figlia e l’amante furono arse vive. Dopo le esecuzioni, i magistrati fecero innalzare nella città di Bedburg un macabro monumento: gli operai sistemarono la ruota sulla quale Stubbe era stato torturato su un alto palo, e su questo infilarono la testa dell’uomo inoltre, a ricordo della sembianza che, secondo le supposizioni, egli assumeva durante le incursioni assassine, inclusero la scultura di un lupo. Per commemorare le vittime appesero all’orlo della ruota sedici pezzi di legno lunghi mezzo metro, tante quante erano le povere anime che secondo le sue ammissioni egli aveva assassinato. La notizia della licantropia di Stubbe si diffuse; la sua storia sensazionale fu raccontata numerosissime volte, e passò di bocca in bocca, così che il nome del suo protagonista venisse storpiato e apparve nelle varie fonti sopravvissute come Stumpf, Stubbe e Stub.