Georges Gurdjieff è stato uno dei personaggi più misteriosi ed enigmatici del XX secolo. Nonostante le esuberanze del suo carattere, gli insegnamenti di Gurdjieff sono considerati una pietra miliare della spiritualità moderna. Il fulcro del suo pensiero è rivolto alla liberazione della coscienza dell’uomo e alla ricerca della realizzazione e della piena libertà spirituale.
Georges Ivanovic Gurdjieff è certo una delle figure più interessanti del XX secolo. Ignoto al grande pubblico fino alla morte, ha lasciato un’opera di cui solo adesso si comincia a riconoscere l’importanza nella storia del pensiero e della ricerca della saggezza; la sua azione segnò la vita culturale di mezzo secolo, il suo messaggio rimane attuale, e sintetizza le conoscenze delle tradizioni e dei grandi maestri del passato. Tuttavia, a settant’anni dalla sua morte, il nome di quest’uomo puzza ancora di zolfo. Egli si riteneva un maestro spirituale e voleva “spazzare via senza pietà tutto il ciarpame accumulato nel pensiero umano nel corso degli evi“.
Gurdjieff insegnava la saggezza e, tuttavia, la sua esistenza è un vero romanzo di avventure. Brutale, eccessivo, gran mangiatore e bevitore, cinico, maligno e senza scrupoli, ma geniale nei suoi discorsi e nel suo insegnamento, la sua leggenda lo presenta come un lupo mannaro, un tiranno, un mago o un gran maestro. I pareri rimangono discordi. Tra quelli che lo hanno conosciuto, alcuni furono traumatizzati, altri veramente “risvegliati” a una nuova realtà, a una nuova diversa dimensione dell’essere. Giudicarlo è impossibile, e anche inutile. Ci rimangono del suo passaggio sulla terra alcuni scritti, alcune testimonianze, tutte sconvolgenti. Era, comunque, una personalità fuori dal comune, di là da tutti i nostri criteri di valutazione cosiddetti normali. Un vero mutante.
Nato il 13 gennaio 1877, in Georgia, Georges Gurdjieff dimostrò fin dalla più tenera età un’estrema precocità. “Siccome ero ben dotato, mi ci voleva poco tempo per imparare le mie lezioni e potevo dedicare il resto delle mie giornate ad aiutare mio padre nel suo laboratorio di falegname. Assai presto iniziai perfino ad avere una mia clientela, prima tra i miei compagni di classe, per i quali fabbricavo vari oggetti come fucili e portapenne. Poco per volta, passai a un lavoro più serio: andavo a fare ogni sorta di piccole riparazioni a domicilio“. Ce lo dice lo stesso Gurdjieff parlando della propria fanciullezza.
Questa facoltà di cavarsela nella vita gli servì moltissimo, in seguito. Anche i rapporti con la gente lo interessarono molto presto. Sentiva “una tendenza imperiosa a non fare nulla come gli altri“, e a sviluppare negli altri questo stesso genere di bisogno. Gli automatismi e le abitudini di una vita regolata gli facevano orrore, perché vi sentiva l’inizio dell’imprigionamento dell’essere. Non voleva imitare gli altri, ma vivere secondo la propria personalità.
Più tardi, nel suo insegnamento, rifiutò anche che si tentasse di svelare certi aspetti della sua personalità, perché la cosa importante per ciascuno era di scoprire sé stesso. E già stava precisandosi un’altra tendenza: l’esigenza di “ricercare le cause di qualsiasi fatto reale di natura insolita; e questa proprietà fece poco per volta di me uno specialista dell’arte di scrutare tutti i fenomeni sospetti che trovavo sul mio cammino“. Perciò, il compositore Pierre Schaeffer, che lo aveva conosciuto, poté dire che “fin dall’infanzia aveva intravisto il suo destino che era di conquistare la propria esistenza“.
Rifiutò la carriera da prete o da medico che gli si presentava e, sentendosi limitato nella sua lontana regione, si mise a viaggiare in tutto l’Oriente, fino nel Tibet. La sua curiosità lo spinse a cercare le conoscenze perdute, i poteri sconosciuti, tutto ciò che poteva portarlo a superare continuamente sé stesso.
Nel suo libro “Incontro con uomini straordinari“, racconta un certo numero di esperienze che trasformarono completamente la sua visione dell’esistenza, e gli fecero scoprire che l’uomo ha dentro di sé possibilità in genere sconosciute. Vent’anni di vita avventurosa ne fecero un personaggio agguerrito e abituato a sfidare le dure leggi dell’esistenza, ma anche un uomo che aveva sviluppato strani poteri nascosti. Quando tornò in Russia nel 1913, iniziò a radunare discepoli e ad insegnar loro, duramente, un modo “diverso” di vedere e di vivere l’esistenza.
Tutta la sua vita futura era già fin da allora decisa nella sua essenza; voleva fondare un istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo. Nel 1911 incontrandolo per la prima volta, il suo discepolo Uspensky vide “un uomo che non era più giovane, di tipo orientale, con baffi neri e occhi acuti, mi stupì dapprima perché non sembrava affatto al suo posto in quel luogo e in quell’atmosfera (un caffè di Mosca); ero ancora pieno delle mie impressioni d’Oriente, e quel personaggio dal viso di rajà indù o di sceicco arabo, che avrei facilmente immaginato sotto un barracano bianco o un turbante dorato, produceva in quel piccolo caffè di bottegai e commessi viaggiatori, con il suo cappotto nero dal collo di velluto e la sua bombetta nera, l’impressione inattesa, strana e quasi allarmante di essere un uomo mal travestito“. Lo stupore fu presto sostituito dal fascino: “Non solo le mie domande non lo imbarazzavano, ma mi parve che mettesse in ogni sua risposta molto più di quanto io avessi chiesto“.
Con l’arrivo della Rivoluzione Russa, iniziò, per Gurdjieff e un piccolo gruppo di discepoli, un periodo di vagabondaggio. Si spostarono nel Caucaso settentrionale, poi, di fronte all’avanzata bolscevica, passarono a Costantinopoli, poi in Germania e, infine, in Francia dove arrivarono nel 1922 e si stabilirono nel “Priorato di Avon”, ceduto da una nuova discepola. Gurdjieff vi fondò una comunità che gli permise di portare avanti il suo insegnamento in modo più efficiente e di ricevere tutti quelli che erano ansiosi di seguirlo. Influenzò così una generazione di scrittori e di artisti, tra i quali citiamo René Daumal, Lue Dietrich e Katherine Mansfield. Quest’ultima, ammalata, andò a morire al Priorato, riconciliata con sé stessa. I vari viaggi negli Stati Uniti, dove si crearono altri gruppi, l’insegnamento, l’opera scritta occupavano ormai tutto il tempo di Gurdjieff. Le sue idee, i suoi atteggiamenti e le sue parole scandalizzavano tutti. Era troppo vivace per inserirsi nello spirito del tempo e pochi capivano gli eccessi della sua vita.
La gente lo ammirava o lo odiava, ma nessuno rimaneva indifferente. Poco gli importava di essere trattato da ciarlatano, da mago nero o da maestro geniale. Perseguiva la sua azione a modo suo, libero fino in fondo. Circondato da un numero sempre crescente di discepoli, sentendosi invecchiare, vendette il Priorato nel 1933 e si stabilì definitivamente a Parigi. Vi morì sedici anni dopo, portando, col sorriso sulle labbra, il suo enigma nella tomba. Ma cerchiamo di alzare un lembo del velo. Perché, anche se la sua immagine è morta, l’insegnamento di Gurdjieff rimane sorprendentemente attuale.
Egli sosteneva, con ragione, che noi vagabondiamo nella vita come fantasmi. Perduti nel nostro sogno a occhi aperti, rinchiusi nella nostra bolla, con la mente insoddisfatta, siamo sempre in preda a desideri contraddittori, un’angoscia sorda ci rode, una tensione inconscia attanaglia il nostro corpo. La realtà che ci circonda, le persone che frequentiamo, le vediamo soltanto attraverso il prisma deformante del vortice di pensieri e di idee fisse che occupano perpetuamente la nostra mente.
La presunta felicità è quasi sempre fatta di abbrutimenti artificiali, di comodità monotone, di una sicurezza-prigione. Per sopportare gli imprevisti e i problemi della vita, l’essere si circonda di rigide barriere, evita la vera comunicazione, si chiude al mondo e a sé stesso. Dall’infanzia, il nostro vero io viene inibito. Quindi la vita scorre, fatta di paure, e l’uomo ignora sé stesso, diventa una macchina pensante. “Tale è” diceva Gurdjieff “l’uomo medio ordinario: uno schiavo incosciente, interamente al servizio di piani d’ordine universale, che non hanno niente a che fare con la sua individualità. E più il grado di coscienza diminuisce, più il numero degli individui cresce. L’uomo come lo conosciamo non è un essere compiuto; la natura gli offre la possibilità di svilupparsi fino a un certo punto. Da quel momento può proseguire soltanto in base ai propri sforzi e secondo i suoi mezzi, oppure vivere e morire come è nato, o addirittura degenerare, perdendo ogni capacità di svilupparsi“.
Però, la grandezza dell’uomo risiede nel fatto che è libero di scegliere il suo destino. Se non lo fa, è perché non lo vuole veramente. Anche colui che sa vivere in modo armonioso, colui che si trova bene nel suo “corpo-psiche” (specie rara), anche quello può evolversi sempre di più, acquisire nuove facoltà, allargare ancora il campo della sua coscienza.
La libertà, quel vecchio sogno dell’umanità, è in noi. L’inferno non è negli altri, ma in noi. È la nostra visione del mondo che crea il mondo. Cambiate la visione, cambierà il mondo. Gurdjieff invitava ad un’avventura meravigliosa: quella della liberazione. “Per quanto riguarda l’evoluzione, è indispensabile convincersi fin dall’inizio che non vi è evoluzione meccanica possibile. L’evoluzione dell’uomo è l’evoluzione della sua coscienza“. Voler cambiare il mondo è bene, ma prima bisogna cambiare sé stessi, liberarsi delle paure interiori che generano il male in noi e intorno a noi.
Gurdjieff affermava anche: “Mi è stato spesso chiesto in che cosa consistesse la magia nera, e ho risposto che non esiste magia rossa, verde o gialla. Vi è la meccanica, cioè ciò che succede, e vi è il “fare”. “Fare” è magico, e vi è una sola specie di “fare”. Non possono essercene due. Ma può esserci una falsificazione, un’imitazione esteriore delle apparenze del “fare”, che non potrebbe dare alcun risultato obiettivo, ma può ingannare le persone ingenue e suscitare in esse la fede, l’infatuazione, l’entusiasmo e anche il fanatismo. Perciò, nel vero lavoro, nel vero “fare”, nessuna infatuazione è più possibile. Ciò che voi chiamate magia nera si fonda sull’infatuazione e sulla possibilità di sfruttare le debolezze umane“.
Come ogni vero maestro, Gurdjieff non proponeva né una teoria né una filosofia da applicare in modo più o meno personale e disordinato. Il suo insegnamento era un metodo, basato su tecniche precise; ma di esse ci resta ben poco. Il suo discepolo Uspensky raccontava che “precisando ciò che era stato conservato fino a oggi Gurdjieff indicava allo stesso tempo ciò che era stato perduto e dimenticato. Praticava danze sacre e parlava anche di vari esercizi e di posizioni corrispondenti ai vari tipi di meditazione; spiegava come si poteva acquisire un controllo sulla respirazione e insisteva sulla necessità di essere capaci di tendere e di rilassare qualsiasi gruppo di muscoli o i muscoli di tutto il corpo, a volontà; ci insegnò, infine, molte cose connesse in qualche modo alla “tecnica” della religione magica“. Inutile dire che tutti quei metodi sono stati perduti dalle Chiese ufficiali, che hanno mantenuto soltanto l’aspetto esteriore del messaggio del loro fondatore, sia che si trattasse di Gesù, di Maometto o di Buddha, trascurando quella ricerca interna, quel viaggio abissale nelle nostre profondità e in quelle dell’universo, che vengono proposte dai vari Maestri spirituali.
Le tecniche di “risveglio”, il tentativo di ritornare ai valori essenziali si sono comunque trasmessi, attraverso il tempo, da iniziato a iniziato. Lo yoga, di cui in Occidente si insegna una forma inferiore, l’hata-yoga o yoga del corpo, ne è un esempio, ma ne esistono molti altri più spirituali, che coinvolgono tutto l’essere, come, per esempio, lo zen.
“Perché” chiedeva Uspensky “la conoscenza viene tenuta così accuratamente segreta?“. Rispondeva Gurdjieff: “Nessuno nasconde nulla. Non vi è alcun mistero. Ma l’acquisizione o la trasmissione della vera conoscenza richiede certamente un grande impegno e molti sforzi, sia da parte di colui che riceve, sia da parte di colui che dà“. In quel senso, Gurdjieff chiamava lavoro il suo metodo di “risveglio”. Lavoro per conoscersi, per liberarsi dai complessi, dalle paure, dalle tensioni e dalle angosce; sapersi muovere nella vita liberi, come un pesce nell’acqua o un uccello nel cielo. Saper “essere”, pienamente e coscientemente. Questo era il vero sapere della magia.
Il lavoro su di sé non si limitava ad essere un’introspezione che può finire col fossilizzarci. Si doveva mettere in gioco l’essere intero, nella sua entità, corpo-spirito. Secondo Gurdjieff e le tradizioni occulte, questa totalità di cui siamo fatti comprende quattro “corpi”: il primo è il corpo carnale o planetario, come lo chiamava Gurdjieff nei suoi “Racconti di Belzebù“. Il secondo è lo schema vibratorio di cui siamo costituiti. Il terzo è il corpo spirituale o corpo mentale. Infine, il quarto sarebbe il corpo divino o corpo causale; perché causale? Uspensky lo spiega così: “II corpo porta in sé le cause delle sue azioni: è indipendente dalle cause esterne“, quindi gode di una libertà infinita che trascende lo spazio-tempo e Gurdjieff aggiungeva sotto forma figurata: “Il primo è la carrozza (corpo), il secondo è il cavallo (sentimenti), il terzo è il cocchiere (cervello) e il quarto è il padrone (la coscienza lucida e volontaria). Questi corpi non possono quindi essere visti come elementi separati: devono essere legati fra di loro, come lo è l’equipaggio, e guidati (sviluppati insieme). Dobbiamo riconoscere che ogni uomo deve cercare di avere il proprio io; altrimenti non sarebbe altro che una “vettura di piazza” dove può prendere posto qualsiasi passeggero, che disporrebbe di lui a suo piacimento“.
Lo sviluppo delle nostre qualità superiori avviene a partire dai “nutrimenti” che assumiamo e che sono di tre tipi: l’alimentazione, l’aria e le impressioni. Privato di impressioni, “l’uomo non può vivere un solo istante“. Grazie ad esse, si può conoscere, si può capire sia ciò che ci circonda, sia noi stessi.
La fede nell’infinita molteplicità della vita, nonché lo sviluppo interiore, dipendono da ciò che Gurdjieff chiamava la comprensione: “È l’essenza di ciò che si ottiene partendo da informazioni intenzionalmente acquisite e da esperienze vissute di persona“. Perciò ogni istante della nostra vita può essere una nuova esperienza, una ulteriore comprensione, un perpetuo insegnamento.
Un giorno si parlerà di Gurdjieff come di un “maestro di risveglio”. Voleva rompere il guscio delle abitudini. Bachelard diceva con ragione: “Un’anima abituata è un’anima morta“. Noi reprimiamo la palpitazione del nostro essere, lo scintillio della nostra propria verità. Il livellamento verso il basso non interessa i veri taumaturghi: essi sanno troppo bene che siamo tutti diversi, anche se composti con gli stessi elementi. È nel rispetto, nella scoperta di tale differenza, e nella ricerca della nostra originalità particolare che si può creare un’unione con il complesso delle energie. Una volta che l’essere accetta sé stesso, può accettare gli altri, vivere con essi, in armonia, la meravigliosa avventura dell’esistenza, con le sue miserie e le sue grandezze, le sue tristezze e le sue gioie. E, andando oltre, Gurdjieff suggerisce “tutto un modo di essere nella vita che ci riguarda direttamente e che ci fa presentire una realtà di un altro ordine“. Gurdjieff, in ciò che ci resta di lui, inneggia alla vera libertà, quella della vita. “Il risveglio non deve soltanto essere pensato, ma anche realizzato“.