Nella valle di Cuzco, in Perù, è possibile visitare i resti di alcune strutture megalitiche composte da massi perfettamente levigati, dal peso individuale che può raggiungere e superare le 200 tonnellate. Le tecniche utilizzate per il taglio ed il trasporto dei megaliti delle Ande rimangono un mistero che gli studiosi moderni non riescono a spiegare.
In un avvallamento di una collina che si affaccia sulla valle di Cuzco, in Perù, si trova la colossale fortezza di Sacsayhuaman, uno degli edifici più imponenti mai costruiti. Sacsayhuaman consiste in una serie di tre o quattro cerchie di mura che formano terrazzamenti ascendenti verso la collina, nonché di rovine di entrate, scalinate e rampe. Tutto il sito è costituito di blocchi di pietra giganteschi (megaliti) alcuni dei quali hanno un peso che supera le 200 tonnellate. Gli enormi blocchi sono tagliati, levigati ed incastrati così bene tra loro che anche oggi non è possibile introdurre la lama di un coltello né un sottile foglio di carta nelle fenditure tra l’uno e l’altro. Non è stata utilizzata malta per tenere insieme i megaliti che sono tutti diversi ma perfettamente aderenti l’uno all’altro, tanto che alcuni ingegneri sostengono che nessun costruttore edile moderno riuscirebbe ad ottenere gli stessi risultati anche con l’ausilio dei più sofisticati strumenti oggi disponibili. La disposizione di ogni singola pietra doveva essere pianificata in precedenza perché nessun blocco di 20 tonnellate, per non parlare di quelli di 80 fino a 200 tonnellate, poteva essere stato lasciato cadere in maniera casuale con la speranza di ottenere una costruzione di tale precisione. I megaliti sono assemblati strettamente in una sorta di incastro a coda di rondine che li rende inattaccabili da parte dei movimenti tellurici: infatti sono ancora in piedi nonostante i tanti devastanti terremoti che hanno scosso le Ande negli ultimi secoli, mentre, ad esempio, la cattedrale spagnola di Cuzco è stata rasa al suolo e ricostruita ben due volte.
La cosa incredibile è che le pietre non sono autoctone, bensì, a giudicare da alcuni documenti, sembrano provenire dall’Ecuador, da almeno 2.430 Km di distanza. Altri ricercatori hanno individuato delle cave più vicine, a poco più di 7 Km. Sebbene si ritenga che questa fortezza sia stata costruita dagli Inca alcune centinaia di anni fa, non sono stati ritrovati documenti che attestino la fondatezza di questa tesi, né gli stessi Inca ne parlano nel corpus delle loro leggende. Come è possibile che questa popolazione, che non avrebbe posseduto nozioni di matematica, né una lingua scritta o utensili di metallo, e che addirittura non utilizzava neanche la ruota, abbia potuto costruire un tale complesso ciclopico fatto di mura e palazzi? Ad essere onesti, si brancola nel buio alla ricerca di una spiegazione plausibile.
Quando gli spagnoli arrivarono per la prima volta a Cuzco e videro queste costruzioni, le ritennero opera del diavolo in persona proprio per la loro monumentalità. Non sono molti i luoghi dove si possono trovare dei megaliti con incastri perfetti come quelli appena descritti. I costruttori erano impareggiabili muratori ed hanno sparso costruzioni simili in tutta la valle di Cuzco. Si tratta di opere realizzate con pietre dal taglio perfetto, in blocchi rettangolari che raggiungono il peso di circa una tonnellata. È possibile che un gruppo di uomini forzuti sia riuscito ad alzare un blocco e metterlo in posizione e sicuramente questo è quanto è avvenuto almeno con i massi più piccoli. A Sacsayhuaman, però, come anche in altre antiche città degli Inca, è possibile trovare degli enormi blocchi tagliati con 30 o più angoli ciascuno.
All’epoca della conquista spagnola, Cuzco si trovava nel momento di massimo splendore, con almeno 100.000 abitanti che vivevano nella città antica. La fortezza di Sacsayhuaman poteva contenere l’intera popolazione all’interno delle proprie mura in caso di guerre o catastrofi naturali. Alcuni storici sostengono che la fortezza sia stata costruita alcuni anni prima dell’invasione spagnola e che gli Inca se ne siano attribuiti la paternità, senza però riuscire a ricordare come o quando esattamente fosse stata costruita. Un unico racconto del trasporto delle pietre si trova nel libro di Garcilaso de la Vega dedicato alla storia degli Inca. Nel suo racconto, Garcilaso parla di una pietra gigantesca trasportata a Sacsayhuaman da un luogo oltre Ollantaytambo, ubicato ad una distanza approssimativa di 73 Km.
I nativi raccontano che per l’enorme sforzo di essere trascinata sul terreno, la pietra arrivò affaticata e pianse lacrime di sangue perché non era più disponibile per essa un posto nella costruzione. Il dato storico è riportato dagli Amautas (filosofi e dottori) degli Inca. Secondo il loro racconto, la pietra fu trasportata sul posto da più di ventimila uomini che la trascinarono utilizzando enormi funi, seguendo un sentiero assai impervio. Lungo il cammino incontrarono molte alte colline da scalare e discendere. La metà degli addetti tirava la pietra tramite le corde legate alla parte anteriore, mentre l’altra metà la spingeva da dietro per timore che la pietra potesse slegarsi e scivolare giù dalle montagne in una gola, dalla quale poi sarebbe stato impossibile estrarla. Proprio nell’ascesa di una di queste colline, per mancanza di cautela e coordinazione, la massiccia pietra rotolò giù dal costone della collina, uccidendo dai 3.000 ai 4.000 uomini. Nonostante la disgrazia, la pietra fu recuperata e messa sulla pianura ove si trova ancora oggi.
Sebbene Garcilaso fornisca una descrizione vivida del trasporto della pietra, molti ricercatori dubitano della veridicità del suo racconto. Se anche la storia fosse vera, gli Inca avrebbero potuto replicare quella che ritenevano fosse stata la tecnica seguita dai costruttori originari. Non si mette in dubbio la perizia artigianale degli Inca, ma se si desse credito a questa storia, ci si dovrebbe chiedere come questa popolazione avrebbe potuto trasportare e posizionare megaliti pesanti centinaia di tonnellate viste le difficoltà che vi furono con una sola pietra e per giunta di dimensioni ridotte.
La tesi che gli Inca avessero trovato queste rovine, attribuendosene la paternità, e avessero poi costruito sulle stesse non è così allarmante come si potrebbe pensare. Nell’antico Egitto una pratica comune tra i regnanti era quella di attribuirsi la costruzione di obelischi, piramidi o altre strutture preesistenti, cancellando letteralmente il cartiglio del vero costruttore e sostituendolo con il proprio. Anche la Grande Piramide sembra essere stata vittima di una tale furbizia. Il faraone Khufu, o Cheope secondo la versione greca, fece cesellare il proprio cartiglio alla base della piramide ed è l’unica iscrizione che si possa trovare sulla piramide, nonostante il fatto che altre testimonianze facciano pensare che la piramide non sia stata affatto costruita da Cheope. Forse non doveva neanche essere una tomba ma questa è un’altra storia.
Se gli Inca arrivarono sul luogo e trovarono le mura e le strutture di base delle città, perché semplicemente non vi si stabilirono? Anche oggi, basterebbe fare dei piccoli lavori di ristrutturazione e dotare alcune delle costruzioni di un tetto per renderle abitabili. Al contrario, ci sono prove che testimoniano come gli Inca abbiano trovato le strutture e ve ne abbiano costruite altre sopra. Secondo numerose leggende, Sacsayhuaman, Machu Picchu, Tiahuanaco ed altre rovine di costruzione megalitiche furono opera di una tribù di giganti. Nelle note al libro di Garcilaso de la Vega, Alain Gheerbrant commenta: “Per la costruzione della fortezza furono utilizzati tre tipi diversi di pietra, due dei quali, tra cui quello che costituisce le mura perimetrali, sono stati trovati sul luogo. Il terzo tipo, l’andesite nera utilizzata per la costruzione delle abitazioni interne, è stato ritrovato in cave relativamente distanti: quelle più vicine si trovavano a Huaccoto e Rumiqolqa, rispettivamente a circa 15 e 36 Km. Per quanto riguarda i blocchi più grandi delle mura di cinta, nulla dimostra che essi non furono semplicemente ricavati da un giacimento di pietra esistente sul luogo, cosa che svelerebbe il mistero“.
Gheerbrant è quasi sicuro nel ritenere che gli Inca non abbiano mai spostato questi enormi megaliti. Inoltre, anche la gigantesca città di Tiahuanaco, in Bolivia, è costituita di blocchi di pietra pesanti centinaia di tonnellate. Le cave sono a molti chilometri di distanza ed il sito è senza dubbio di origine preincaica. I sostenitori della tesi che il popolo Inca avesse trovato queste città tra le montagne e vi si fosse poi stabilito, affermano che i costruttori di Tiahuanaco, Sacsayhuaman ed altre strutture megalitiche nella zona di Cuzco appartenevano alla stessa popolazione. Garcilaso, che descrisse queste costruzioni subito dopo la conquista spagnola, aggiunge: “Come possiamo spiegare il fatto che questi indiani del Perù fossero capaci di spaccare, incidere, sollevare, trasportare, issare e abbassare blocchi di pietra così grandi e che, soprattutto, riuscissero a fare tutto questo senza l’ausilio di macchinari o strumenti particolari? Un tale enigma non è di facile soluzione senza pensare al ricorso alla magia, considerata anche la grande familiarità di questa popolazione con gli spiriti del male“.
I conquistatori spagnoli spogliarono e saccheggiarono tutto quello che trovarono. Quando Cuzco fu conquistata, Sacsayhuaman aveva tre torri circolari sulla sommità della fortezza, dietro tre mura megalitiche concentriche, le quali furono smontate pietra per pietra ed il materiale ricavato utilizzato per la costruzione di altre strutture ad uso degli spagnoli. Un’interessante teoria che circola sulla preparazione degli enormi megaliti dalla forma perfetta ad incastro è che furono utilizzate delle tecniche di ammorbidimento e modellazione della roccia, tecniche di cui oggi non rimane più traccia alcuna. Hiram Bingham, lo scopritore di Machu Picchu, nel suo libro “Across South America“, parla di una pianta il cui succo aveva la caratteristica di poter ammorbidire la roccia che, in seguito, poteva essere perfettamente plasmata e lavorata.
Nel libro “Exploration Fawcett“, il colonnello Fawcett racconta di voci che circolavano su alcuni megaliti, modellati per mezzo di un liquido che ammorbidiva la roccia fino a darle la consistenza della creta. Brian Fawcett, figlio del colonnello nonché curatore delle sue pubblicazioni, nelle note a piè di pagina racconta come un suo amico “che lavorava in una cava a Cerro de Pasco, a 4.200 metri di altitudine nel centro del Perù, trovò un contenitore in una tomba risalente all’epoca degli Inca o ad un’epoca precedente. Una volta aperto il barattolo e rotto l’antico sigillo di cera ancora perfettamente intatto, vide un liquido che pensò essere chicha, una bevanda alcolica. Più tardi, qualcuno urtò il barattolo che cadde su una roccia. Una decina di minuti dopo, io mi piegai a guardare sulla roccia ed esaminai la pozza che il liquido fuoriuscito aveva formato: la roccia che si era trovata a contatto con esso era diventata soffice come pasta umida di cemento! Sembrava quasi che la roccia si fosse fusa, sciolta come cera sul fuoco“.
Fawcett pensò che fosse possibile trovare la pianta nei pressi del fiume Pyrene, nella zona di Chuncho, in Perù, e la descrisse con foglie di colore rosso scuro ed alta circa 30 centimetri. Circola anche un’altra storia su un biologo che si mise ad osservare uno strano uccello nella foresta amazzonica che si costruiva il nido su una roccia strofinandola con un ramoscello. La linfa del ramoscello scioglieva la roccia, creando così un avvallamento dove l’uccello poteva poi costruire il proprio nido. Un’ultima osservazione interessante riguarda i segni di taglio visibili su alcuni massi e la loro somiglianza con quelli trovati ad Assuan, in Egitto, sulle pietre di un piccolo piramidon di un obelisco rimasto incompleto. Si tratta forse di una coincidenza o esisteva un’antica civiltà che legava entrambi i luoghi?