Nel 1920, in un canale di Berlino, venne ripescata una ragazza di circa vent’anni che sosteneva di essere Anastasia, la figlia minore dello zar Nicola II di Russia, assassinato durante la rivoluzione bolscevica del 1917. Negli anni seguenti la ragazza intentò diverse cause legali per vedere riconosciuti i suoi diritti all’eredità dei Romanov.
Dalle nebbie che avvolgono il tragico destino dei Romanov, è emersa una vera folla di pretendenti. Alcuni erano degli squilibrati che si credevano membri della famiglia imperiale russa, altri degli impostori, che speravano di affermare qualche diritto sulle immense ricchezze dello zar depositate nelle banche occidentali.
La partita in gioco aveva infatti una posta molto rilevante: una buona parte dell’immensa fortuna dei Romanov era stata portata fuori dalla Russia subito prima della Rivoluzione e depositata in banche occidentali. Secondo alcune stime, la ricchezza della famiglia ammontava ad oltre 3.500 miliardi di lire del 1980, senza contare il valore delle proprietà che i Romanov avevano in Germania.
La vicenda più clamorosa in questo intrico di falsi Romanov, è quella di una ragazza al di sotto della ventina, ripescata quasi morta da un canale, a Berlino, il 17 febbraio 1920. La ragazza pretendeva di essere la granduchessa Anastasia, figlia minore dello zar Nicola: il suo racconto aveva una tale verosimiglianza, che fu accettato da molti eminenti aristocratici russi in esilio. La ragazza aveva addosso documenti intestati ad Anna Ciaikovski, ma appena ebbe ripreso le forze, dichiarò di essere Anastasia e diede un resoconto dettagliato di come era sfuggita all’esecuzione.
Disse che era stata portata col resto della famiglia imperiale nella cantina di Ekaterinburg per essere giustiziata. Era rimasta ferita nella sparatoria ed era svenuta. Sosteneva di avere ripreso i sensi e di essersi trovata nascosta in un carro di contadini, con due uomini e due donne.
Gli uomini erano due fratelli di nome Ciaikovski. Appartenevano alle guardie bolsceviche, ma non avevano voluto partecipare al massacro. Le dissero che era stata lasciata per morta sul pavimento della cantina, ma che al momento di portare fuori i cadaveri si erano accorti che respirava ancora e avevano deciso di farla uscire di nascosto dalla Russia, per porla in salvo.
Col denaro ricavato dalla vendita di una collana di perle e di smeraldi grezzi che erano stati cuciti nel suo abito, Anastasia e i suoi compagni riuscirono a raggiungere Bucarest, dove tutti e tre alloggiarono presso alcuni parenti dei Ciaikovski.
Anastasia, ancora troppo terrorizzata dai bolscevichi per farsi riconoscere, sposò uno dei due fratelli e ne ebbe un figlio. Ma poco dopo suo marito fu riconosciuto per strada da agenti bolscevichi e assassinato. Anastasia ebbe un collasso nervoso e il bimbo le fu tolto per essere adottato da altri. Suo cognato, Sergei Ciaikovski, decise quindi di portarla a Berlino, dove forse sarebbe stata più al sicuro; ma il giorno dell’arrivo, dopo un terribile viaggio, Sergei scomparve. Anastasia era così esausta e talmente disperata che decise di porre fine ai suoi giorni gettandosi in un canale.
Durante i dieci anni che seguirono, la donna diede corso a ogni sorta di azioni giudiziarie per ottenere il riconoscimento del suo perduto titolo e della sua eredità, e tenne continui contatti con i vecchi partigiani dello zar. La comunità russa di Berlino era divisa. Molti credevano che la “sconosciuta” fosse la granduchessa, mentre altri la bollavano come truffatrice. La maggioranza di quelli che avrebbero potuto identificarla erano morti, altri rischiavano di perdere la loro parte dell’eredità Romanov, se le pretese di Anastasia risultavano giustificate.
Pierre Gilliard, ex precettore dei figli Romanov, era convinto che si trattasse di un’impostora. Asseriva che la donna non solo non capiva il russo, ma si faceva il segno della croce come i cattolici e non come si usa nella chiesa ortodossa russa. Il granduca Cirillo, cugino dello zar e capo dei superstiti Romanov, rifiutò di concederle un’udienza o di avere ulteriori discussioni sull’argomento.
La principessa Irene di Prussia, sorella della zarina, si disse sicura che la sua fronte e i suoi occhi erano quelli di Anastasia; ma non aveva più veduto la principessa da oltre dieci anni. Il granduca Andrea, un cugino dello zar, accettò le asserzioni della “sconosciuta di Berlino” come veritiere e dichiarò: “È certamente la granduchessa“.
Anastasia, più tardi, sostenne che suo zio, il granduca Ernesto d’Assia, aveva fatto una visita in Russia, venendo dalla Germania, nel 1916. I due paesi erano allora in guerra. Egli negò accusandola di essere una “sfacciata bugiarda“, ma nel 1949 l’ex comandante di un reggimento russo delle Guardie, il colonnello Larski, affermò sotto giuramento che la visita di Ernesto era avvenuta, e nell’epoca specificata da Anastasia.
Il caso della “sconosciuta di Berlino” appassionava il mondo. Nel 1928, trasferendosi in America, la donna assunse il nome col quale è ancora nota, Anna Anderson. Un detective privato, Martin Knopof, dopo lunghe indagini sostenne che la donna era un’operaia polacca di nome Franziska Shanzkovshi. Nel 1933, infatti, il tribunale di Berlino concesse a sei parenti superstiti un riconoscimento di eredità per le proprietà dello zar in Germania, escludendo la presunta Anastasia. In quella occasione, i giudici tedeschi sentenziarono la presunzione di morte di Anastasia Romanov.
La lotta della “sconosciuta” per il riconoscimento fu perciò ripresa da capo. Anastasia si sottopose a minuziosi esami medici in ospedale. I raggi X rivelarono la presenza di cicatrici alla testa, che potevano essere state causate dal calcio di un fucile. I duroni che aveva ai piedi erano localizzati esattamente dove li aveva avuti la figlia dello zar. E una cicatrice sulla sua spalla destra, dove un neo era stato cauterizzato, era simile a una ferita menzionata nella cartella clinica della granduchessa.
Un’altra piccola cicatrice sul dito medio della mano sinistra spiegata come la conseguenza di un incidente provocato da un valletto distratto che, quando Anastasia era bambina, le aveva rinchiuso la mano nello sportello di una carrozza. Gli oppositori negarono che il fatto fosse mai avvenuto, ma una damigella di corte confermò la versione dell’incidente.
Nel 1938, gli avvocati della Anderson intentarono un’azione legale per ottenere che il documento del 1933 fosse dichiarato nullo. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale impedì che la causa potesse essere discussa. Solo nel maggio 1968 un tribunale di Amburgo pose la parola fine al caso, respingendo le richieste della Anderson. Nonostante ciò, molte persone continuano a credere che la storia della famiglia Romanov non si sia conclusa nella cantina di Ekaterinburg.